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Varese, intervista con Enzo Rosa

Varese, intervista con Enzo Rosa

25 settembre 2015

La vigilia di Varese-Fenegrò, terzo impegno del campionato di Eccellenza è scivolata via senza pensieri per i ragazzi di Giuliano Melosi che, alla fine della rifinitura di ieri mattina, hanno festeggiato uno dei fondatori del club, nato in estate dopo l’ingloriosa fine della vecchia società: l’ex ultrà Enzo Rosa, ora dirigente biancorosso, ha compito gli anni. Lo abbiamo incontrato per fargli domande non solo sul nuovo corso.

Rosa, nel dicembre del 1999 l’assessore provinciale Cristina Scolari l’aveva invitata a Villa Recalcati per premiarla insieme ad alcune illustri vecchie glorie del Varese come Bruno Arcari, Pietro Anastasi e Claudio Gentile. Lei che centrava?
Quella sera mi era stata consegnata una medaglia che sarebbe dovuta andare a tutta la curva biancorossa di cui allora ero rappresentante. L’intento di chi premiava era quello di render merito a un tifo sano, trascinato da passione genuina.

Eppure, mercoledì 7 marzo 1979 lei era al palazzetto tra gli ultrà mentre si giocava la partita di Coppa dei Campioni di pallacanestro tra la Emerson Varese e il Maccabi Tel Aviv, incontro diventato purtroppo tristemente noto perché la curva nord mandò in scena una vergognosa gazzarra antisemita: apparvero croci e striscioni inneggianti al genocidio ebraico, vennero urlati slogan irripetibili.
È vero, io c’ero, anzi posso dire che ero in prima fila, come al solito, a suonare il mio tamburo. Non sono stato incriminato e finirono invece in tribunale quei ragazzi che avevano in mano le croci, accusati di apologia di genocidio. Era stata una messa in scena macabra, come quella che qualche giorno prima si era vissuta allo stadio di Torino per il derby, quando i tifosi della Juventus avevano fatto riferimento alla tragedia di Superga in modo plateale. Il nostro intento era solo quello di demolire psicologicamente la squadra avversaria, Tel Aviv, che come Varese era una delle compagini di basket più forti al mondo. Il nostro gesto è stato fuori luogo ma va letto nel contesto dell’epoca: purtroppo negli anni Settanta andare allo stadio era come andare alla guerra tanto è vero che all’Olimpico un razzo sparato dagli spalti prima di Roma-Lazio uccise Vincenzo Paparelli. Ma la nostra di quel giorno al palazzetto voleva essere solo una gogliardata.

Senta, lo striscione «Adolf Hitler ce l’ha insegnato, uccidere gli ebrei non è reato» non può mai essere considerato gogliardico.
E infatti quello striscione comparve a nostra insaputa, all’improvviso in mezzo alla calca. Anche un altro striscione non sarebbe mai dovuto essere esposto («10, 100, 1000 Mauthausen», ndr) ma purtroppo qualcuno lo tirò fuori nonostante una riunione della curva dei giorni precedente avesse vietato categoricamente qualunque simbolo o scritta offensiva. Vi assicuro che per quei due striscioni i conti alla fine furono regolati.

Le croci però comparvero dando vita a una delle pagine più tristi della curva varesina.
Chi ha sbagliato ha pagato e io ho riflettuto a lungo su quello che è successo, scrivendo racconti e memoriali che per il momento tengo per me. Vent’anni dopo la partita del 1979, Tel Aviv tornò a Varese e il giornalista Giancarlo Pigionatti mi chiese di scrivere un articolo che pubblicò sulla prima pagina della Prealpina. In quelle righe anch’io parlavo di tristezza: per quello che era accaduto ma anche per il fatto che chi aveva giudicato a priori non si fosse mai sforzato di capire le ragioni di chi quel giorno era entrato in curva in buona fede. Il mondo ultrà non è tutto negativo.

E che cosa ci sarebbe di buono?
Il movimento ultrà è stato negli anni Settanta il primo momento di aggregazione spontanea di tanti giovani. La vita di curva, soprattutto per chi, come me, ha iniziato a viverla da adolescente, è ricca di emozioni e di situazioni. Io al Franco Ossola non ho fatto solo a botte. Ho conosciuto la mia ragazza, che poi ho sposato. Ho trovato tanti amici sinceri con cui ho passato tante notti a dormire sotto la curva, ad esempio prima della famosa partita con la Sampdoria del 1982 per avere la certezza che tutto andasse bene. C’è chi allo stadio ci ha fatto anche l’amore. Masnago è come se fosse casa mia. Salire ogni gradone del Franco Ossola per me è raccontare una storia: spesso gioiosa, a volte tragica perché capita di aver perso per sempre qualche amico con cui avevo iniziato nel 1974 il percorso dei Boys.

Molti dei suoi amici le sono comunque di fianco, se è vero che tanti ex ultrà del suo gruppo hanno contribuito a far rinascere il Varese.
Questo dimostra che chi ha frequentato per anni la curva nord non è un delinquente. Molti dei miei ex sodali sono diventati imprenditori o professionisti. E non hanno esitato un momento pur di dare il loro contributo alla rinascita del Varese. Come Giuseppe Forni di Ispra che, quando il sindaco Attilio Fontana ha lanciato l’ultimatum a fine luglio, dando 48 ore per fare il Varese, è tornato dal Camerun, dove gestisce un’attività, per versare cinquemila euro. Un altro Forni, che si chiama Antonio ed è di Comerio, mi ha scritto questo messaggio: “Anch’io ho messo la mia parte e mi sento sempre in curva, tre gradoni dietro a te”. Però vorrei sottolineare come tanti altri amici di curva, che fanno fatica a tirare alla fine del mese e magari sono finiti in cassa integrazione, non si sono sottratti né tirati indietro: i loro 200, 100 o 50 euro valgono come le donazioni più pingui perché mostrano quella generosità e quello spirito di fratellanza che si è sempre respirato sui nostri spalti.

A parte questo spirito di generosità e di fratellanza che cosa rivaluterebbe il movimento ultrà?
Le sue origini: primi complici degli ultrà sono state le mamme e le nonne, strafelici perché i loro figli e nipoti frequentavano insieme agli amici lo stadio. La curva nord è nata con le bandiere cucite appunto dalle mamme e dalle nonne che mettevano insieme la stoffa di raso bianca e rossa: immaginate l’orgoglio di noi ragazzini nello sfoderare sugli spalti questi preziosi stendardi costruiti grazie al sudore e all’amore materno. Io custodisco ancora il maglione biancorosso che mi aveva fatto mia mamma e tante nonne sferruzzavano per i loro nipotini sciarpe e cappellini di lana. E chi ci dava i soldi per la vernice degli striscioni? I genitori, che ci guardavano con tenerezza mentre in cantina pennellavamo le nostre opere d’arte da esporre in curva nord.

Lei si ferma solo all’aspetto più romantico e familiare.
Certo e il nostro nuovo Varese si rivolge soprattutto alle famiglie: vogliamo che portino i loro bimbi allo stadio.

Oggi, dopo la gara con il Fenegrò, andrà in scena il cosiddetto terzo tempo: giocatori, staff e dirigenti biancorossi si sederanno, insieme agli spettatori del Franco Ossola, al tavolo con i calciatori ospiti e i loro tifosi a cui sarà offerto un rinfresco. È stata sua l’idea di questa iniziativa legata al fair play?
È partita dalla nostra responsabile marketing Sarah Maestri e questa sera, comunque vadano le cose, sarà un piacere bere una birra insieme ai giocatori e ai tifosi della squadra avversaria. Il Fenegrò è una realtà del territorio comasco ma il nostro pubblico è maturo e sa che oggi il Varese vuole vivere una festa.

Quali sono i valori del calcio in cui crede?
Esattamente quelli di questo nuovo Varese. Abbiamo un gruppo di giocatori incredibili e c’è un attaccamento alla maglia indescrivibile. Ad agosto due ragazzini di 18 anni che credevano di non essere riconfermati piangevano nello spogliatoio perché l’unico loro sogno era quello di far parte del gruppo biancorosso. Ce l’hanno fatta e adesso scendono in campo più o meno regolarmente. Nei loro occhi è scritto che cosa deve essere il calcio e a ogni nostro allenamento si respira un’aria pulitissima. Venite al campo in settimana e capirete che cosa significa far parte di questo Varese: qui il pallone non è inquinato dai calcoli dei procuratori, dalle ipocrisie e da tante altre piccolezze.

Il Varese ha già quasi 1.200 abbonati. Si aspettava una risposta così massiccia da parte del pubblico?
Scaramanticamente puntavo a quota 700 ma evidentemente abbiamo toccato le corde giuste che sono quelle dei valori. Vede, io lavoro in una multinazionale che si trova sull’autostrada tra Varese e Busto Arsizio. Ci lavorano molti tifosi della Pro Patria che alla fine della passata stagione se la ridevano leggendo della situazione che stava attraversando la vecchia società. Ghignavano davanti alle interviste surreali di Pierpaolo Cassarrà e al suo linguaggio segnato dal suo «genoma esplosivo» e da altre amenità. E che cosa dire della farsa finale consumata con Alì Zeaiter, ex ospite del carcere dei Miogni presentato come ancora di salvezza del Varese? Ma per spiegare perché così tante persone sono corse ad abbonarsi vi devo raccontare un episodio che mi è capitato ieri allo stadio.

Cos’è successo?
È arrivato un uomo che mi ha chiesto dove fosse possibile abbonarsi. Gli ho detto che gli avrei fatto io la tessera e lui mi ha ribattuto: ”Guardi che è per mia moglie: ha più di 60 anni e ha visto le foto del Varese su Facebook constatando quanta gente è ritornata allo stadio e quanto entusiasmo c’è. Sa che avete fatto pulizia e vuole abbonarsi in tribuna laterale”. Questo dice già tutto. Una società di calcio è legata alla fede sportiva di tante persone che non possono essere mortificati o presi in giro. Ve la ricordate la sofferenza dell’anno scorso? A me sembrava di morire. Se nel consiglio di amministrazione del Varese 1910 ci fosse stato spazio anche per i tifosi certe cose non sarebbero successe. Per questo noi abbiamo pensato a un grande consorzio aperto a tutti i tifosi. Ma di questo si parlerà a breve.

Quanti anni ha compiuto ieri?
Cinquantasette.

Quanti se ne sente?
A giugno, quando era arrivato Ali Zeaiter e c’era anche qualche giornalista che lo applaudiva a Palazzo Estense, capivo che la fine era vicina e mi sentivo un novantenne. Adesso mi rivedo come un ventenne da curva nord.

(La Provincia di Varese)