Da bambino, all’ingresso della curva nord, mi chiedevo sempre se la pinza buca biglietti dello steward avrebbe lasciato un cerchio o una stella sul mio biglietto.
Mi mettevo in punta di piedi sui tubolari di ferro e guardavo dall’alto il fiume di persone che risaliva gli scalini, riparandosi dalla pioggia con la fanzine degli ultras.
La mia parte preferita era il lancio della carta igienica dagli spalti, poi imparavo le parolacce con i cori di benvenuto alla tifoseria ospite.
Oggi entro allo stadio, guardo l’abbonamento e vedo la stessa successione di stelle e cerchi dopo tredici anni, con il Piacenza che è quattro categorie più in basso.
La curva l’hanno chiusa. Tra il parcheggio grigio e il cielo più grigio c’è il vuoto di ottomila anime in meno.
Prima di sistemarmi nel rettilineo ho il tempo di passare al bar. Media in mano, sciarpa al collo e occhiali fluorescenti delle bancarelle: salgo i gradoni di cemento gasato da The Final Countdown che rimbomba nel deserto dello stadio. Scaldo la voce per le due ore più sacre della settimana.
Mi guardo intorno. Siamo i superstiti della specie mezza estinta dei romantici, per cui il tempo non è mai passato.
C’è chi allo stadio veniva per la serie A, e nei tempi di magra si è fatto la pay tv con duecento ore di campionato greco in alta definizione, e diretta esclusiva dei giocatori che si fanno la doccia.
Poi c’è chi segue una divisione che conta cento spettatori di media, nessun tifo organizzato o interesse mediatico.
Uno zoccolo duro rimasto anche dopo il fallimento societario e il crocevia di Prato, che è stata anche la mia prima, sfortunata trasferta.
Di quel giorno ricordo l’autogrill di Roncobilaccio e il suo caffè acido con la stessa nitidezza della partita, dove abbiamo trovato la seconda retrocessione consecutiva.
Nel gruppo di ultras trovo Federico, alla mia sinistra per scaramanzia, e gli chiedo qualcosa sugli avversari. Sono una squadretta veneta, sicuro li asfaltiamo.
Partiamo bene e anche noi, sugli spalti, siamo in forma. Ma loro fanno il loro gioco: non sembrano intimoriti dallo stadio né dal tifo d’altra categoria. Tempo dieci minuti e segnano. Tre minuti dopo prendiamo il secondo.
L’ultrà è umorale. Vinci e sei un eroe. Perdi e la società non ha le idee chiare, in estate si è speso molto e comprato bidoni, l’allenatore non ci capisce più niente, i giocatori sono primedonne.
Ma ha anche uno spirito che i tribunari non avranno mai: è un fuori di testa che investe tempo, energie e denaro nel seguire una squadra per l’Italia. Fermandosi in posti che neanche trovi sulla cartina, prendi Roncobilaccio.
Sotto di due gol cantiamo più forte di prima. Sbagliamo un rigore, la voce che si strozza; ci infilano come niente il terzo e il quarto.
Il settore, che aveva incitato fino allo 0-3, consiglia ai giocatori di andare a zappare. Qualcuno stacca gli striscioni dalla cancellata e se ne va — io sono uscito prima del novantesimo minuto solo una volta, e in sette minuti abbiamo pareggiato e poi vinto.
Ammutolisco. Sto immobile, rivolto verso il campo, ma in realtà neanche lo guardo. Fa parte del gioco soffrire tanto per una partita, è il prezzo da pagare se hai questa passione.
Segniamo l’1-4 tra bordate di fischi. Io e i miei amici non scambiamo una parola; calcio una lattina che cade nel primo anello con un tonfo metallico.
Siamo incazzati e coveremo questo veleno per una settimana.
Chiedo a Federico dove si gioca la prossima.
(La Stampa, racconti)