Si è ucciso l’altro ieri (7 luglio) lanciandosi dal viadotto alle porte di Fossano, non lontano da quell’infinito ponte di cemento sull’autostrada Torino Savona dove morì Edoardo Agnelli. Raffaello Bucci, quarantenne, originario di San Severo, uno dei capi carismatici del gruppo ultras bianconero dei Drughi, «assunto» dalla società come consulente esterno nella stagione scorsa come «Supporter Liaison Officer», sostenitore ufficiale di collegamento tra la tifoseria e il club, si è tolto la vita dopo essere stato sentito in procura, a Torino, nell’ambito della recente inchiesta sull’infiltrazione della ’ndrangheta nella curva bianconera e sul business del bagarinaggio. Bucci, detto Ciccio, era stato sentito due giorni prima dai pm come persona informata sui fatti. Non era indagato. Ma nella veste professionale, introdotta di recente dal regolamento Fifa, aveva la funzione di «anello di congiunzione» tra tifoseria e club, col compito di controllare la biglietteria, «intervenire in caso di problemi, verificare eventuali complicazioni per l’ingresso allo stadio e mediare, se necessario con i tifosi». Mansioni tecniche, di responsabilità, con finalità anche di ordine pubblico.
L’AUTOPSIA
La notizia, in procura, è rimbalzata dai colleghi degli uffici giudiziari di Cuneo, dove è stato aperto un fascicolo per accertamenti, affidato al pm Alberto Braghin, che ha disposto l’autopsia, anche se non ci sarebbero dubbi sulle cause della morte. Nessun mistero dietro la caduta dal viadotto, secondo i carabinieri di Fossano. Sono piuttosto le motivazioni del gesto ad aprire interrogativi. Che cosa lo ha turbato o spaventato a tal punto da indurlo a gettarsi nel vuoto, da un viadotto alto una ventina di metri? Di recente Bucci aveva anche perso la madre. Il lavoro svolto da Bucci all’interno della Juventus era molto apprezzato dalla dirigenza. Di professione guardia giurata, era stato scelto per quel ruolo di fiducia perché non aveva mai avuto guai con la giustizia. Di certo aveva contatti frequenti con alcuni dei personaggi finiti al centro dell’indagine congiunta di polizia, carabinieri e finanza, coordinata dall’antimafia torinese, che nei giorni scorsi ha portato all’esecuzione di 18 misure cautelari, di cui 15 in carcere. Tra gli indagati finiti in cella ci sono membri della famiglia Dominello, del Chivassese, in particolare Saverio Dominello, considerato uno dei boss del clan finito nel mirino dell’indagine, collegato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, tirato in ballo in un capo di imputazione per aver dato il suo benestare, ad un amico, per l’apertura di un nuovo gruppo ultras nella curva bianconera.
LA DIFESA
E proprio ieri Saverio Dominello, difeso dall’avvocato Domenico Putrino, è stato interrogato in procura. Ha affrontato le accuse di un tentato omicidio e il capitolo Juventus. «La ’ndrangheta non c’entra con la Juve e le tifoserie» ha detto. Poi ha aggiunto: «Sì, è vero un mio amico mi ha chiesto di creare un nuovo gruppo in curva e gli ho dato una mano. Tutto qui». Stando alla sua difesa, alcune intercettazioni sarebbero state equivocate. La rivendita di biglietti, riconducibile al figlio Rocco, incensurato, amico di giocatori e ultras, finito per la prima volta in carcere con il blitz di pochi giorni fa, sarebbe solo un «affare di poche migliaia di euro a partita, nulla di criminale». Ma l’indagine è solo all’inizio.
(La Stampa)