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Capello, ci risiamo…

Capello, ci risiamo…

16 gennaio 2019

«L’Italia è l’unico posto dove gli ultras comandano e i giocatori vanno a salutarli sotto la curva. L’85-90% dei tifosi è importante, non questi signori con striscioni, slogan e troppi poteri ottenuti dalle società». Don Fabio Capello mette il dito nella piaga. O meglio, torna a metterlo. Sono passati ormai dieci anni da quando l’allora ct della Nazionale inglese disse: «In Italia comandano gli ultras, fanno quello che vogliono, allo stadio si può insultare tutto e tutti. Manca il coraggio per fermarli». Parole che sembrano pronunciate oggi, invece risalgono al 2009.

Il problema è che per l’ex tecnico, il discorso è diventato ricorrente, senza tener conto nemmeno delle leggi emanate negli ultimi anni, come quella del 2015 del Codice di Giustizia Sportiva del che al comma 8 fa divieto “di avere interlocuzioni con i sostenitori nel corso dell’attività sportiva (ritiri, allenamenti, gare, ndr) e/o di sottostare a manifestazioni e comportamenti degli stessi che, in situazioni collegate allo svolgimento della loro attività, costituiscano forme di intimidazione, determinino offesa, denigrazione, insulto per la persona o comunque violino la dignità umana”. Al successivo comma 9, poi, si legge che “ai tesserati è fatto divieto di avere rapporti con rappresentanti di associazioni di sostenitori che non facciano parte di associazioni convenzionate con le società”. In ogni caso, gli stessi rapporti “devono essere autorizzati dal delegato della società ai rapporti con la tifoseria. In caso di violazione delle richiamate prescrizioni, si applicano le medesime sanzioni di cui al comma 8″. 

Capello non menziona le multe ingiustificate per il cambio posto o le ultime comminate per aver guardato una partita dalle vetrate. Capello non menziona l’obbligo di fax né si sofferma su diffide casuali o pestaggi vendicativi della celere (l’ultimo a Piazza della Libertà a Roma). Capello non parla del divieto di accensione di materiale pirotecnico, delle multe sproporzionate dovute soprattutto alla volontà di colorare una curva e far cantare uno stadio. Capello insomma non parla mai del crescente sistema repressivo che punisce i tifosi veri (sì, gli ultras) che hanno come fine principale quello di voler spingere la propria squadra alla vittoria. Capello si sente l’unico attore protagonista in campo e si meriterebbe tutto il palcoscenico, con le file sottostanti vuote. Tanto ormai il calcio business è sempre più finto. Ma se anche il calcio moderno fosse davvero diventato finzione, dai tempi dell’Antica Grecia, il rapporto tra attori e pubblico è sempre stato fondamentale ai fini della buona riuscita dello show. Sarà che Capello ha costruito la vittoria di uno scudetto a Roma isolando del tutto la squadra dalle pressioni del pubblico che pure in quella stagione seguiva in massa la squadra ovunque. Sarà che lui stesso, il giorno della vittoria tricolore, si chiuse in casa perché non poteva (o non voleva) godersi i festeggiamenti attesi 17 anni. È brutto arrivare all’età di 72 anni e doversi guardare indietro rimpiangendo i momenti persi che il tempo non ci ridarà mai…