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Domenico Mungo, dalla curva all’università

Domenico Mungo, dalla curva all’università

8 ottobre 2016

Dalla Curva all’Università. Dalla strada alla Letteratura.

Un viaggio, attraverso le parole dello scrittore torinese, nell’arcipelago delle Sottoculture contemporanee, dei movimenti ultras, della scrittura che nobilita.

Lo stadio come laboratorio di repressione e l’esigenza di una nuova letteratura antisistemica. Ne parliamo con l’autore in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Avevamo Ragione Noi – Storie di ragazzi a Genova 2001, Eris Edizioni.

Parole in libertà sui suoi romanzi, su Valerio Marchi, sul movimento ultras italiano, sulla memoria di Genova 2001 e sulla necessità della letteratura, dell’informazione e della cultura indipendente come strumento di verità, memoria e giustizia sociale.

 

Di Federico Farcomeni

 

 

 

Domenico, come è iniziato il tuo interesse verso gli ultras e le sottoculture contemporanee?

L’incontro con Valerio Marchi a Roma è quello che ha definitivamente mutato il corso della mia vita in questo senso. Avevo già interesse, all’inizio degli anni Novanta, per tutto ciò che era distante dai canoni imposti dal mainstream, che fosse musica, cinema, look ed ideologie. Ero un onnivoro, disordinato, bulimico divoratore di fanzine, dischi e cassette autoprodotte, libercoli, materiale, gadgets e tutto ciò si poteva raccattare nei meandri della catacombale distribuzione indipendente nazionale ed estera in quegli anni. Inoltre io stesso avevo attraversato dalla metà degli anni 80 almeno tre crisi d’identità passando dal protodark della prima metà degli anni 80 al punkmetalcore ed industrial degli anni novanta, con ovvi scivoloni grunge e heavy metal nel frattempo. La fine del liceo e l’ingresso nel mondo del fancazzismo universitario e della militanza politica e ultras di prima linea mi impose anche un rigido background formativo. Se volevo attraversare da protagonista talune scene musicali, politiche ed ultras dovevo avere la padronanza dei contenuti oltre che l’esperienza di strada, di occupazioni, di scontri con polizia ed ultras avversari e di spalti.

Valerio Marchi fu l’illuminazione: un gigante della sociologia militante. Capace di creare connessioni tra le sottoculture cosiddette devianti, gli stili musicali e estetici, gli hooligans e gli ultras con le società in trasformazione secolare. Il Valerio Marchi conscio della forza rivoluzionaria, talvolta inconsapevole e autoreferenziale, del movimento ultras e delle plausibili trappole che il Sistema avrebbe intentato per neutralizzarlo: commercializzazione, business, infiltrazione politica eterodiretta, normalizzazione ed infine scomparsa per implosione. Una visione globale e particolare degli universi giovanili e dei movimenti estremisti talmente profetica che fu in grado di mettere in guardia i più perspicaci e di far sorridere ironicamente gli allocchi. Lo incontrai prima di tutto come lettore dei suoi testi dapprima nelle edizioni cripto-underground di Koinè poi nelle smaglianti ristampe e nuove uscite di Castelvecchi e DeriveApprodi. Poi ebbi la fortuna, all’epoca dell’uscita di Sensomutanti e dell’immeritato successo sotterraneo che ebbe, come autore che veniva contattato da un entusiasta libraio di San Lorenzo che ne decantava il valore, non sapendo che l’interlocutore al di là del bancone era l’autore stesso.

Valerio aveva il valore aggiunto di non essere un accademico essendo un ricercatore militante di strada ed ha dato impulso ad una serie di testi socioculturali che hanno fatto da apripista saggistica riguardo tutte le derive delle sottoculture contemporanee: punk, skinhead culture, antagonismo sociale, nuova destra non conforme, violenza, stili di vita, look, repressione e controllo sociale …

 

Parlaci di te e delle tue opere: qual è il filo conduttore?

Il filo conduttore è sempre la curiosità, la voglia di misurarsi con la parola scritta che necessariamente diventa testimonianza, memoria, rivendicazione, dolore, gioia, speranza, rimorso. Frutto tutto ciò delle esperienze che ho maturato negli ultimi 30 anni equamente divisi tra militanza politica e ultras, formazione culturale (nel frattempo mi sono laureato, ho scritto e scrivo di musica e letteratura alternativa contemporanea per un mensile nazionale, organizzato eventi musicali e controculturali con i soldi delle istituzioni (ride, nda) ed i miei pochi investimenti suicidi, ed ho incominciato un faticoso percorso di insegnamento nel mare magnum del precariato di Stato tra scuole medie inferiori, istituti professionali e laboratori universitari in Italia e Germania. Oggi mi occupo di realizzare la sintesi e l’analisi delle sottoculture attraverso i linguaggi a me congeniali: letteratura, ricerca storica e sociale, musica indipendente e cinematografia. Il mio primo libro, fu “Sensomutanti”- L’Amore ai tempi del Daspo, L’Antiromanzo – come amai definirlo allora nei comunicati stampa situazionisti che produssi per gli uffici stampa e le redazioni nazionali, uscito per Tirrenia Stampatori di Torino nel 2003 e ristampato dall’ottima Boogaloo Publishing dell’esimio Giulio Ravagni nel 2008. È la storia schizofrenica di un personaggio militante antagonista dell’area anarchica torinese degli anni 90 che si ritrova consapevolmente nei crudeli giorni del G8 di Genova del 2001 ad essere artefice, vittima e testimone anfetaminico delle violenze della polizia e della mattanza preparata a tavolino, ma è allo stesso tempo un ultras della Fiorentina che racconta la storia della sua curva e delle tifoserie italiane attraverso gli occhi della balaustra e della prima fila. Da lì ho poi iniziato a seguire altri percorsi letterari e sperimentali.

 

Spiegaci…

 

Ho continuato a scrivere narrativa tanto che ho pubblicato nel 2008, sempre per Boogaloo in un impeto di generosità sampdoriana, “Cani Sciolti” che ha avuto una bella diffusione anche in Germania dove è stato tradotto da Kai Tipmann per i tipi della Burkhardt&Partner con il titolo di Streunende Koter nel 2010. Questo libro invece cerca di creare una via italiana al genere letterario hoolifans/ultras visto che fino a quel momento c’erano solo principalmente autori anglosassoni: da Pennant a John King.

Io ritenevo necessario elevare la narrazione del mondo ultras italiano, dall’autocelebrazione dei libri autoprodotti dalle curve, dalla sociologia spicciola, da qualche tentativo caricaturale per donargli una dignità letteraria complessiva ed inattaccabile stilisticamente, formalmente ma sopratutto nei contenuti. I punti di rottura quindi sono molteplici perché da una parte c’è la semplificazione dei media e del pensiero dominante, anche quello della sinistra radicale ed accademica, che accorpa tutto quanto: minimizzando gli ultras come fenomeno di disagio, deriva morale e violenta, bacino elettorale e manovalanza spicciola della destra radicale, non sapendo cogliere differenze, sfumature, specificità e valori positivi. Inoltre bisognava delineare una demarcazione culturale e antropologica tra l’identità italiana che ha tutte altre radici rispetto ad esempio a quella anglosassone o latino americana perché è figlia di una cultura originaria che ha avuto molto spesso associazioni con la società civile, i movimenti politici e di contestazione, le mode e gli stili giovanili, le correnti musicali addirittura. Gli ultras italiani hanno sempre avuto uno spirito sociale trasversale, c’è una commistione tra la storia della società civile italiana e gli ultras. E anche le identità locali vivono un’edificazione ed identificazione antropologica con la squadra di calcio. Basti pensare alle coreografie e alle pezze che richiamano monumenti, origini storiche, natali mitologici della città oltre che della storia del club e quant’altro che albergavano e sopravvivono nel nostre curve. Le Big si fregiano dei loro successi, le cosiddette provinciali o le nobili decadute inalberano l’orgoglio cittadino e le poche bandiere spendibili come i fuoriclasse intramontabili: vedi Antognoni e Batistuta a Firenze, Palanca a Catanzaro, Bulgarelli a Bologna, Signorini, Skuravy, Vialli e Mancini a Genova, Maradona a Napoli, Gli Immortali di Superga, Mazzola e Pulici a Torino, Di Bartolomei, Totti, Di Canio e Chinaglia a Roma. Le coreografie gli inglesi invece non sapevano nemmeno cosa fossero e non hanno mai avuto una struttura gerarchica, piramidale e trasversale al contempo come le curve italiane. Le Crew ed i Lads britannici sono più assimilabili a delle gang che ai nostri gruppi ultras. L’assioma ultras/hooligans era solo una buona e mendace semplificazione giornalistica per spiegare gli scontri e le devastazioni domenicali, ma le similitudini finivano lì, tranne gli sporadici casi dei veronesi e dei laziali, che del modello inglese, nelle sue accezioni meno naif e più stilistiche avevano fatto la loro peculiarità, inaugurando la strada al Casual Style. Il modello italiano poi si è posto come modello per quasi tutti gli altri Paesi, dal Portogallo alla Grecia alla Svizzera e Germania, a quelli Balcanici, Scandinavi, ma pure asiatici con punte contemporanee a dir poco grottesche ed imbarazzanti: i super macho MMA dell’est che si randellano nei boschi o nei parcheggi, o i pupazzetti indonesiani che si ispirano alle curve della serie A sono quanto di più distante dalla mia visione ultras del mondo.

I miei ultimi lavori narrativi sono invece Avevate Ragione Voi – Spore di poesia libertaria – Zona Editore, Arezzo del 2010 dove, sotto forma di sperimentazione in versi liberi e libertari, trasformavo in poesia anarchica e disordinata la prosa dei miei racconti su Genova 2001, sulla storia sociale di Torino dal 1922 al 2006, passando attraverso la repressione degli anarchici torinesi con gli omicidi di Stato di Sole e Baleno, nel 1998, primi martiri della nascente lotta alla TAV in Val Susa o i fatti di Corso Traiano del 1969 che inaugurarono la stagione dell’Autunno Caldo, intersecandoli con i miei dissidi interiori dell’epoca e la confusione dovuta alla sconfitta generazionale, ideologica e strategica subita a Genova nel 2001 e alla deriva dei valori ultras con il giro di vite repressivo e le infiltrazioni della delinquenza e delle politica strumentalizzata nelle curve.

Inframmezzato da una buona produzione saggistica in combutta con i valorosi pirati della controcultura Vincenzo Abbatantuono e Gabriele Viganò per NOI ODIAMO TUTTI – storia del movimento ultras italiano attraverso gli striscioni politicamente scorretti- Città del Sole – Napoli, 2010.

E l’ottimo lavoro collettivo, a cui si devono molte delle mie risposte in questa intervista, Stadio Italia – I Conflitti del Calcio Moderno – AAVV, Casa Usher- Firenze, 2010. a Cura di Lorenzo Giudici con fra gli altri Lorenzo Contucci e poi AAVV – Noi Siamo Il Toro – Memoria, identità e immaginazione del tifoso granata. A cura di Stefano Radice. Eclettica, Massa. 2016. Domenico Mungo, Marco Peroni, Daniele Segre, Domenico Beccaria, Marco Bonetto.

Ed infine il mio orgoglio, La prefazione di ULTRA’- Le sottoculture giovanili negli stadi europei di Valerio Marchi – (RedStarpress/Hellnation, Roma, 2015).

Oggi esce il mio ultimo lavoro. Un romanzo storico, emotivo, postpunk, ematico, necessario sui fatti del G8 del 2001. Le storie dei ragazzi che ricostruiscono in maniera collettiva e corale, come nella tragedia greca, le voci, i suoni e l’orrore di quei giorni di sangue, che ricordiamolo secondo Amnesty International, stabilirono il triste record della più grande sospensione dei diritti umani e civili in Occidente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Avevamo Ragione Noi. Storie di ragazzi a Genova 2001. Eris Edizioni, Torino. Di cui parleremo diffusamente a margine, nella sezione autogestita. Secondo gli accordi presi anzitempo con la direzione editoriale (ride, nda).

 

Hai parlato di modelli identitari: ci sono però delle curve che si rifanno al modello inglese e secondo te perché si avvicinano a quello stile?

Il fenomeno Casual in Italia si è maggiormente evidenziato negli anni 2000 rispecchiando sia una tendenza di moda, intesa esteticamente, di abbigliamento, di stile giovanile, ma anche come elemento di rottura rispetto alla concezione anni 80 e 90 dei supergruppi, del materiale, della individuabilità del soggetto ultras. Il casual si infiltra nel percorso dei “civili” per andare alla partita, prende treni di linea, auto private, arriva volendo fin sotto il territorio nemico, va nello stesso settore. Sfugge alle statistiche e ai monitoraggi. Ma come ogni movimento minoritario diviene mainstream nel giro di poco tempo: il casual diventa un feticcio, snatura la sua indole anarcoide e si inquadra a sua volta in un archetipo. Nelle dinamiche di una società che cambia lo stile casual evidenzia una teoria: l’essere casual rispecchia il sentirsi svincolati dai gruppi principali, ne certifica la morte e svincola i microgruppi dalla disciplina generale che regolamentava le curve egemonizzate. Da un lato aumenta la pericolosità degli incontri “casuali” dall’altro consente una libertà di “movimento” non indifferente. È l’essenza del cosiddetto ultras moderno. Non so se sia un bene o un male. È una realtà e pertanto ne prendo atto.

 

Un altro aspetto è l’anglofilia del movimento casual.

Oltre i veronesi primi ad importare lo stile british in Italia, i laziali- ibridi fra il tifo all’italiana ed una certo elitarismo all’inglese- e alcune indomite tifoserie minori – chietini, potentini, catanzaresi fra gli altri- le due curve che più si avvicinano allo stile inglese sono quelle del Genoa e del Doria. Dalla loro uno stadio molto british, da una parte gli Scooters Boys, dall’ altra i Rude Boys che si rifanno a una cultura musicale di stampo inglese : il northern soul, lo ska, il rock steady. Il vivere la squadra come identità cittadina esasperata. Dividere la città in zone di appartenenza. Con ritrovi ufficiali, con diversità quasi culturali fra le due tifoserie, con strade e vie colorate con i colori sociali, tutto questo è molto inglese. Il calcio in Italia è nato- dopo Firenze- a Genova. E nonostante che a Marassi ci siano stati i tamburi, le coreografie grandiose e tutto il resto del tifo all’italiana, le sciarpate e i cori da gradinata delle due curve genovesi sono fra le più belle d’Italia. Per il resto credo che l’aver reso le curve sbiadite cornucopie di ciò che erano, senza colori, fumoni, bandiere e striscioni, ovvero il risultato della repressione liberticida, ha fatto il resto. Ritengo quindi che il rifugiarsi dietro l’anglofilia del gruppo senza orpelli sia in realtà l’unica possibilità di sopravvivere negli stadi del ventunesimo secolo.

 

Poi però c’è un punto di rottura, uno spartiacque. Per dirla alla “Bocia”, ora l’Europa ci bagna il naso.

 

Il 2007 in Italia è l’annus horribilis che inizia con Raciti e finisce con Sandri ed è l’anno in cui svolta definitivamente tutto: vengono proibite manifestazioni coreografiche, si inizia a parlare della TdT e parallelamente si arriva ad una nuova generazione di ultras 2.0 fatta di Daspo pluriennali, associazioni a delinquere, tornelli. Prima non c’era una legge dello Stato che punisse gli ultras (tranne la legge Mancini, questa però più segnatamente rivolta alla repressione delle manifestazioni esplicite di apologia del nazifascismo e della discriminazione razziale in seguito ai fatti di Brescia-Roma del 1994 e il ferimento del vicequestore Selmin ad opera di qualcuno). Questo ci porta ad un tentativo di superare i vincoli ideologici. In Germania ad esempio una cosa come la TdT verrebbe concepita come una cosa da Terzo Reich, per loro che hanno vissuto pure la Stasi. Il Fan Projekt è un modello abbastanza virtuoso e comunque interessante per la realtà tedesca ad esempio, ma non credo che attecchirebbe qui in Italia. Siamo troppo diffidenti delle tavole rotonde con questurini, psicologi e assistenti sociali. A ragion veduta, aggiungo io.

Dove ci può portare questa continua ricerca? Ad un avvicinamento o…?

 

Personalmente per me è una ricerca continua, nel dottorato all’università, presso la scuola superiore dove insegno Storia del Novecento e Lettere Moderne.

Personalmente più le imprese sono disperate e più mi affascinano. Ho sempre sostenuto che davanti alla repressione, allo svuotamento coatto delle curve, alla banalizzazione dei media nei confronti delle curve ma anche degli errori macroscopici e dalla esasperazioni perpetrate dagli ultras, sia necessario rivalutare una componente culturale, che fa tesoro delle diverse anime ultras, della cultura di strada, delle sue contraddizioni, di ciò che rappresenta e ciò che ha rappresentato. Bisognerebbe iniziare a far capire che lo stile di vita che per molti è stato essere un ultras, non si semplifica nella violenza o nelle degenerazioni da cronaca nera, bensì ha matrici e ricollocazioni condivise in seno alla società contemporanea, della quale gli ultras, o presunti tali, rappresentano una cartina di tornasole.

Ho un obiettivo ambizioso: superare da sinistra e da destra (attraverso ciò che scrivono giornalisti di base e di movimento, scrittori, attivisti, insegnanti, operai, precari, compagni, fasci, anarchici senza censura alcuna, senza vincoli agli argomenti trattati) l’omologazione culturale e sociale alla quale i media di regime, il sistema politico ed economico contemporaneo e la consuetudine ci hanno condannato. Accompagnare i nostri lettori ad un’analisi critica della società è il nostro obbiettivo. Ecco perché impegnarsi in questa direzione divulgativa è fondamentale, ed in questo momento storico, diventa importante: ciò consentirebbe un’analisi delle trasformazioni sociali e dei conflitti ad esse connesse più consapevole, aprioristica e onesta. Una critica al calcio moderno per esempio non deve essere solo uno slogan da adesivo o da pezza, bensì una posizione generale di avversione e critica ad un sistema che ha de-umanizzato il calcio, lo ha trasformato da passione popolare a terminale della filiera di un sistema economico globale che investe tutti, anche coloro che di calcio non si interessano. Inoltre le tecniche di controllo sociale, di coercizione, di monitoraggio e di repressione si sono affinate nell’alveo dello stadio e sono state esportate in altri settori della società civile, con il plauso dell’opinione pubblica quando si tratta di demonizzare il “folks devil” ultras, con raccapriccio dei democratici benpensanti quando poi i medesimi modelli vengono aizzati contro strati sociali che giustamente rivendicano i propri diritti nelle piazze. Ma la natura della repressione ha la medesima genesi. Occhio quindi a minimizzare le insorgenze che avvengono attorno al mondo del calcio. Occhio a giustificarne gli abusi di potere. La tessera del tifoso, peraltro soggetto anticostituzionale, ne è la riprova più tangibile. Sebbene oggi la veda meno lupus homini che cinque anni fa. Forse se anziché lanciarci contro di essa con lo slancio ideologico e incoscientemente eroico dei Seicento di Balaklava o come la cavalleria polacca che si infrangeva contro i tank sovietici, avessimo subdolamente aderito tutti (more veronesi) per consentirci comunque la libertà vigilata, avremmo continuato a riempire i settori ospiti e creare “movimenti scorbutici” costringendo con “la prassi del disordine” l’esecutivo e gli sbirri ad ammettere che era un assurdo giuridico e gestionale…

Inoltre per me oltre alla scrittura e alla divulgazione narrativa, la fortuna mi consente anche l’aspetto didattico e scolastico.

Ti faccio l’esempio della Storia Sociale di Torino degli ultimi trent’anni di cui mi occupo all’Università di Torino e dei corsi e laboratori di Storia e letteratura sociale del Novecento che tengo alle superiori e all’università, e ad esse interseco le esperienze musicali underground di quegli anni nell’ambito socioeconomico con le sottoculture giovanili e il riscatto e la rinascita dalle generazioni sopravvissute a guerre, riqualificazioni urbanistiche ed industriali, normalizzazioni anagrafiche del terziario avanzato e come tutto questo sia propedeutico alla storia di writer/artisti/pittori e musicisti underground degli anni 80/2000. Racconto questo e la trasformazione della società internazionale, italiana e torinese laddove questi movimenti nascono, crescono e si diffondono. La mia piccola presunzione è cercare di spiegare le cose con un altro punto di vista. E tutto ciò conduce ad altri punti di approdo. Di scoperta. Di verità.

In Europa, se vengo chiamato a Dresda all’università, come e successo nel maggio scorso nell’ambito di un progetto inter-ateneo nel quale sono stato coinvolto dagli accademici tedeschi, ne parlo e porto avanti il mio punto di vista sia sulle controculture che ovviamente sugli ultras. Il discorso è che a Dresda vengo ospitato dall’Università della Sassonia, dal Locale Dipartimento di Cultura Italiana e tengo un seminario nella biblioteca nazionale di fronte a 500 persone equamente suddivise tra gli ultras locali della Dinamo, intellettuali, docenti, rettore e studenti. Con la traduttrice simultanea e l’ossequio di tutti. In Italia le istituzioni si ricordano di me solo quando la Digos mi chiede dove ero domenica pomeriggio oppure durante un corteo anarcoqualcosa…

In questo modo si creano i presupposti per superare il vincolo del modello sociale inglese dal punto di vista antropologico e non solo coercitivo. In Germania l’hanno compreso da dieci anni, da noi mandano ancora il commissario…

 

C’è il rischio che dissotterrare alcuni valori intrinseci del movimento ultras possa paradossalmente portare ad una crisi di identità?

 

È vero: un eccesso di conoscenza paradossalmente potrebbe creare una crisi di rigetto.

Il calcio riveste un ruolo fondamentale nella formazione delle identità collettive. Lo stadio è così per eccellenza uno spazio pubblico della nostra epoca. Uno spazio usato come macchina di consenso, come rappresentazione spaziale del potere e insieme come luogo di dissenso.

I motivi di tale potenza simbolica sono da ricercare in primo luogo in quella che è l’essenza profonda del gioco del calcio: il suo rappresentare una metafora sociale fondamentale come la guerra. Sia in campo che sugli spalti non ci si combatte (quasi mai) realmente, ma si mette in scena la rappresentazione di una battaglia.

Comprendere quanto potente sia il motore culturale che il calcio mette in azione equivale a cercare di mostrare cosa ci è indispensabile per leggere la nostra società. E ciò vale a dire descrivere come e perché, intorno ai simboli di un gioco, migliaia e migliaia di giovani abbiano costruito intensi spazi di aggregazione, momenti di crescita e amicizia, rivendicazioni di autonomia, forme di solidarietà, esplosioni di contestazione e di violenza, sanguinose rivalità; e come il linguaggio del nostro vivere sociale sia fortemente condizionato dai percorsi espressivi, dalle memorie, dalla rabbia e dalla passione che il tifo ha prodotto.

Ci sono anni particolari, nella lunga storia sociale del calcio, da cui occorre ripartire, per far luce sull’oggi. Questo momento è alla fine degli anni sessanta, dal ’68 al 1980. In quel turbolento momento una generazione intrisa di coinvolgimento politico inizia ad aggregarsi in gruppi da stadio. E’ la nascita del movimento ultras.

Questi giovani hanno in comune col tifoso tradizionale lo stesso sentimento di essere parte di una battaglia simbolica che non si ferma al campo ma che coinvolge la città intera. Semplicemente fanno di questa logica una militanza. Il tifo viene ritualizzato come componente essenziale del conflitto simbolico che avviene in campo. Il calcio come rito collettivo trova così la sua prima forma organizzata dal basso.

Gli ultras, rispetto al modo di tifare precedente promosso dai club ufficiali, delimitano dei territori insediandosi nelle curve, danno forma estetica al tifo inventando coreografie, slogan e cori, si dotano di un codice di condotta informale che “regolamenta” gli scontri; costituiscono così delle vere e proprie regole del disordine.

Quello che solitamente è sottolineato di questo fenomeno è il problema di ordine pubblico che esso porta con sé. La violenza che “sta uccidendo il più bel gioco del mondo”. Non si pone attenzione all’espressione pubblica delle passioni che avviene in uno stadio, non si analizzano gli evidenti costi sociali di un rito di massa quale il calcio è. Non si riesce a interpretare quello che sta avvenendo in una prospettiva che consideri la società intera in cui viviamo, i modelli con cui essa si propone, la quantità e la qualità dei luoghi di aggregazione a disposizione sul territorio urbano, gli spazi espressivi concessi, il ruolo del business e le leggi del mercato nella trasformazione degli spazi pubblici, i tentativi di fuggire la profonda solitudine urbana che sopravvive alla scomparsa di una qualsivoglia idea di destino collettivo.

Non si riesce così a leggere la rivoluzione, dentro una storia sociale del calcio, portata da due avvenimenti decisivi quali la nascita degli ultras, e, vent’anni dopo, “l’invenzione” del calcio moderno in Italia, databile attorno al 1990.

Credo però che in Italia ci sia una buona percentuale di ricercatori che hanno gli strumenti e che, se fossero supportati, avrebbero la possibilità di equilibrare questa cosa. Io ad esempio sto cercando di connettere tra loro ricercatori molto più giovani di me che hanno molte qualità, cerco di tenere dei seminari. In questo modo si crea una nuova ricerca, una bibliografia, si sparge il morbo. La controinformazione passa anche nell’entrare in maniera diversa all’interno del sistema.

 

Un po’ come “Matrix” dove però ci sono gli agenti che riconoscono le anomalie del sistema…

Per questo bisogna sempre essere “sensomutanti”! E con questo intendo esattamente quelle personalità sempre difficilmente catalogabili. Il mio personaggio ad esempio è anarchico ma anche ultras, quindi si muove e alimenta il sistema capitalista. Cambiare pelle impone al sistema di trovare nuovi antivirus. Matrix è il sistema e il sistema non possiamo fare a meno di viverci essendo cittadini politici. Dobbiamo confrontarci quotidianamente con il sistema ma al contempo cercare di aggiustare un po’ quelle storture. Nel mio piccolo, ai miei allievi, cerco di insegnare il beneficio del dubbio, della critica.

Io stesso negli ultimi 15 anni ho studiato anche altre ideologie che ora capisco di più pur continuando a non condividerle. Capisco pure la disillusione che ha annichilito definitivamente i movimenti. C’è nell’aria questo qualunquismo indotto anche dai media. Non si distingue più la realtà dalla finzione…riflettendoci, c’è sempre qualcosa che non quadra perché è il sistema stesso che presuppone questa teatralità, una ritualità e non una lotta concreta. Questo fa perdere i riferimenti ideologici…

 

Questo porterà, mutatis mutandis, ad una generazione di ultras 3.0, 4.0…

Parto dal presupposto che ormai il fenomeno delle pay-tv è irreversibile così come la socializzazione attraverso il network. Importante sarebbe riuscire a realizzare con gli ultras 2.0 non solo il sostegno alla squadra ma anche una consapevolezza in grado di ricreare quelle situazioni ambientali che erano state all’origine. Sulla TdT ad esempio io credo che si sia sbagliato all’inizio ad essere troppo contrari. Forse bisognava capire che, aderendo, si può ricreare il caos che possa giustificare queste lotte interne. Invece si è seguito di più il processo di autonomizzazione ultras e di atomizzazione con il casual apparentemente invisibile, il gruppo non riconoscibile. Ci ha portato ai cani sciolti come già succedeva già negli anni ’70 e ’80. Se ci pensiamo, tranne poche eccezioni, il gruppo vero e proprio non mai fatto il morto perché il gruppo rende possibile l’autocontrollo e la gestione interna grazie anche alla sua piramidalità.

Ai leader riconosciuti unanimamente che conferiscono ruoli e diramano direttive, anche nella violenza o nell’autodifesa. L’atomizzazione invece permette la diaspora e l’impunità. Sciogliendo i gruppi, si va verso un’anarchia, anche se mi rendo pure conto che un capogruppo troppo esposto diventa un parafulmine per tutti. La soluzione migliore probabilmente è quella di “pares inter pares”, una realtà in cui c’è una condivisione della responsabilità.

Il livello di allarme sociale che riguarda l’ultras, inoltre, si inserisce infatti nelle retoriche che il potere, nelle sue molteplici forme, mette in atto per camuffare le questioni sociali irrisolte, e i conflitti che ne conseguono, in figure della marginalità e del patologico. La violenza malata degli ultras, vigliacca in quanto nascosta nella massa e nei passamontagna, rappresenterebbe emblematicamente quella violenza nichilista di cui sarebbe intrisa la nostra epoca. Un’agire privo di qualsiasi ragione, considerato così del tutto illegittimo, oltre che illegale. La figura dell’ultras è così posta, dalla grande maggioranza dei mezzi di comunicazione di massa, accanto a quella del tossico, del terrorista fondamentalista, dell’estremista politico “insurrezionalista”, dell’immigrato clandestino e dello “zingaro”.

Sono le figure, riprodotte dai mass media in un unico inalterabile modello, su cui, una volta smantellato il movimento operaio e le altre forme organizzate che si battevano per una trasformazione radicale della società, una volta distrutti i legami di classe e i forti vincoli che legavano differenti mondi popolari, è stato possibile compiere quel passaggio depoliticizzante che riduce immediatamente il conflitto sociale a questione di sicurezza pubblica.

La nostra società del benessere diffuso sterilizza la sempre più emergente “questione sociale” che nasce dalle contraddizioni stesse di questo modello attraverso la messa in pratica di politiche della sicurezza, vale a dire la produzione delle diverse configurazioni della pericolosità e del degrado sociale e la successiva “legiferazione d’eccezione”. Si trasferiscono così le cause dell’insicurezza effettivamente percepita a categorie sociali continuamente mostrate, o meglio prodotte, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, nella loro illegittimità e indifendibilità.

In quasi quarantanni di storia del movimento ultras, dalle sue origini nella temperie politica degli anni ‘70 a oggi, dentro le curve, e dai quartieri dove questi giovani vivono, si è costituita, stratificando avvenimento su avvenimento, una memoria collettiva particolare, un’agire che, considerato sempre “impolitico” e illegittimo, ha invece dato forma all’immaginario e allo stile di vita di una consistente parte di popolazione, coinvolgendo nelle sue rivendicazioni e nei suoi bisogni pratici e simbolici una larga fetta di territorio, che ancora non trova comprensione nel vocabolario politico tradizionale.

La curva è uno dei luoghi delle nostre città in cui si rivela nella forma più dispiegata la costruzione di un laboratorio sociale non più traducibile nelle categorie con cui la riflessione politica “classica”, e poi quella “post-moderna”, che si rifà al pensiero debole, ha pensato la società. Ovvero di buoni versus cattivi toutcourt.

La chiave per impostare questo discorso è il riconoscimento che quello che accade intorno allo stadio è una formazione culturale, o meglio, un percorso di auto-formazione collettiva che investe conflittualmente l’immaginario di una città solitaria e frenetica, priva di coesione sociale e di spazi condivisi. In curva nascono, e cercano di resistere, visioni del mondo eterogenee e complesse che, se comprese nella loro autentica portata sociale, portano a reinscrivere nella città tracce di una battaglia e pratiche di resistenza da anni esorcizzate.

E allora ecco che si attivano tutti quei meccanismi atti a minimizzare i conflitti sociali e tenere a bada tutte le forme di dissenso e di protesta, comprese quelle “sottoculture” come quella ULTRAS ,giudicate da sempre incontenibili e problematiche, e da sempre nel mirino per i più innovativi meccanismi repressivi e di controllo: una palestra che è servita per esportare strumenti di controllo sociale a tutto il resto della Società.

Uno Stato che ha addestrato alla perfezione il suo “braccio armato”a tale scopo, e in questo meccanismo che va dalla violenza di piazza al controllo notturno nelle strade, tutti possono rimanere coinvolti. 

 

Quindi la Repressione è l’unica arma che rimane all’Esecutivo per mantenere l’ordine pubblico negli stadi e nelle piazze?

 

La recrudescenza della repressione ha portato ad una frustrazione collettiva. L’impossibilità del contatto fra gruppi e l’esasperazione del controllo poliziesco, il fatto che a loro volta le forze dell’ordine si rapportino alle tifoserie come una terza forza in campo ha creato una sorta di sacra alleanza fra le tifoserie che individuano nelle forze dell’ordine il primo nemico da affrontare e superare. Inoltre c’è un fattore controculturale che si è consolidato negli anni, paradossalmente nel periodo posteriore alla seconda guerra mondiale, quando la repubblica democratica avrebbe dovuto avere anche una polizia democratica ed invece migliaia di casi hanno posto le forze dell’ordine come avversari delle masse, nelle piazze, nelle università, nelle fabbriche, fino dentro gli stadi, creando una coscienza collettiva che individua nella divisa qualcosa contro il quale combattere. Illuminante teorizzazione ne fece Valerio Marchi ne Il Derby Del Bambino Morto nel 2004.

In questo contesto storico si innestano anche la morte di Carlo Giuliani avvenuta a Genova in Piazza Alimonda il 20 luglio del 2001 durante gli scontri con la polizia verificatisi in seguito alle dimostrazioni contro il vertice del G8 e quindi in pieno regime democratico e di libertà di espressione, per finire con l’assassinio di Gabriele Sandri, Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, per tacere di migliaia di casi silenti e che non hanno avuto risonanza mediatica adeguata.

Ciò che qui si vuole tessere è più che altro un ideale, piuttosto che ideologico, filo rosso che lega fra di loro tutti i momenti che hanno contrapposto sulle piazze e nelle strade, ovvero nel luogo deputato alla rivendicazione dialettica ed ideologica, individui, movimenti, classi sociali, culture e sottoculture antagoniste e il più fedele guardiano degli interessi dell’ordine costituito: le forze di polizia e i carabinieri in quell’immaginario luogo collettivo qui denominato metaforicamente Piazza Italia. Ad esempio quasi mai i responsabili degli eccidi e degli assassini sono stati condannati, quasi sempre sono stati assolti perché il “fatto non costituisce reato”, ciò ci conduce alla conclusione che in Italia sparare, manganellare, pestare, torturare cittadini e dimostranti non costituisce di fatto reato. La repressione di Piazza in Italia è stata il paradigma della prima risposta che lo Stato ha sempre saputo dare a queste rivendicazioni.

 

Quindi uno Stato Patricida che divora i propri figli?

 

Esattamente. Riccardo Magherini diventa pertanto il tossico incontenibile da 5 energumeni in divisa e merita di morire, come Cucchi, l’indisponente spacciatore di fumo anoressico, oppure Federico Aldrovandi, il ragazzino strafatto dopo un rave, o ancora l’ubriacone Giuseppe Uva e tutti gli altri ragazzi di strada morti nelle caserme o sulle strade del Potere. Un borderline anomalo come Andrea Soldi, un teppista con un estintore in pugno come Carlo Giuliani, dei pericolosi ultras come Gabriele Sandri e Paolo Scaroni e Timothy Ormezzano, o i 94 della Diaz che sono sopravvissuti alla violenza cieca ed indiscriminata portandone sul corpo e nella mente gli indelebili segni per sempre. Un meccanismo del fango perfetto che si muove sistematicamente e all’unisono dai primi momenti fino alle sentenze nei tribunali, quando coinvolte sono le divise a cui tutto, troppo spesso, sembra essere permesso.  Mele marce dicono, sistema marcio diciamo, di uno Stato che mira ad autoassolversi. 

Ma questi ragazzi non sono colpevoli di nulla, bensì l’omogeneità della loro storia è quella che tratteggia i caratteri di una vittima di tutto quesot, l’uomo libero vittima della Violenza di  Stato. 

 

Come giudichi il fenomeno del cosiddetto Calcio Popolare?

 

In questo ambito, ovvero della disubbidienza nei confronti del calcio moderno e delle sue tentacolari derive capitalistiche e di controllo sociale, possiamo quindi ascrivere il fenomeno del Calcio Popolare come legittimazione del riappropriarsi del concetto “Il Calcio è del Popolo”, non solo nelle sue forme mitiche, tradizionali e di appartenenza etnica o ideale, bensì come riproposizione delle pratiche (fenomeno propriamente italiano, al di là degli episodi eclatanti del St. Pauli e dell’Union Berlin in Germania o del United of Manchester in Inghilterra) di autogestione economica e finanziaria al fine di creare un antidoto al capitalismo rampante che ha fagocitato ogni ambito del cosiddetto calcio moderno.

La volontà opposta di partecipazione e di identificazione, connaturate per essenza al rito del calcio, dei ragazzi delle curve e poi anche nell’ambito del calcio popolare, hanno reso lo stadio un luogo centrale del conflitto sociale così come i campetti di terza categoria regionale dove guerreggiano in punta di tacchetti e passamontagna il Lebowski di Firenze Sud, L’Atletico San Lorenzo, il Quartograd, La Dinamo Apuana.

 

 

Cosa pensi, da ultras della Fiorentina, della politica aziendalistica dei Della Valle e del loro rapporto con la città e la tifoseria?,

La normalizzazione attuata dai Della Valle ha coinvolto la tifoseria, che oggi è quella che detiene il maggior numero di daspati d’Italia e nonostante ciò eroicamente lotta per sopravvivere tra divieti, diffide, arresti e soprusi ad personam, ma ha anche impoverito qualunque afflato di dissenso e critica al suo interno fra gli assidui non ultras, critica che è demandata ad un glorioso manipolo di giovani e vecchi ultras dietro lo striscione UNONOVEDUESEI che continuano a perseguire i valori ultras che hanno reso la Fiesole rispettata anche da avversari e nemici; la cultura finto- buonista, cripto-repressiva e demonizzante nei confronti degli ultras operata dai Della Valle in concertazione con i vari Questori succedutisi alla guida dell’ordine pubblico fiorentino in questi 15 anni di egemonia ha omologato tutti i tifosi “non ultras”e li ha svenduti alle logiche di controllo e di repressione, trasformando Firenze nel laboratorio privilegiato dell’Esecutivo UEFA e delle politiche securitarie dei vari governi Berlusconi, Prodi, fino a Renzi con l’occulta regia bipartisan di Maroni, Alfano, Goebbels e Stalin. È innegabile che i Della Valle hanno creato, per un breve periodo, una delle squadre più forte degli ultimi 40 anni, (anche se la Viola dei primi anni 80 dei Pontello e di Antognoni e la Fiorentina di Batistuta e Rui Costa sono ancor oggi sogni ad occhi aperti) ma dal punto di vista dell’ultras antisistemico “loro” sono gli avversari culturali e politici. Inoltre non hanno rispetto per questa città, per la storia di questa squadra e per i suoi simboli. Dalla latitanza o strumentalizzazione delle celebrazioni- ultima i 90 anni della società, oppure nei confronti degli Eroi del ’56 e dello scudetto del ’69, alla maglia sempre più sbiadita, sperimentale e/o lontana dalle origini, alla mancanza di qualunque figura storica anche solo simbolica, nei quadri societari. Il riferimento ad Antognoni è ovviamente voluto. Chi non ama Antognoni e non lo rispetta, non ama Firenze e la Fiorentina. Per finire agli abbonamenti carissimi, all’affair cittadella sportiva, al disimpegno e alle magre figure nelle campagne acquisti-cessioni (Salah, Cuadrado, Jovetic solo alcuni) ai tesoretti mai investiti nella squadra, ai dissidi triennali con tutti gli allenatori vincenti e pretenziosi di un salto di qualità da parte della società, al dilettantismo dei dirigenti, al considerare un popolo innamorato alla stregua di clienti, al coinvolgimento – sebbene strumentale e strumentalizzato – in Calciopoli e a tante altre cose che mi trovano in disaccordo con l’attuale proprietà. Onore a loro come imprenditori, ma il cuore è da un’altra parte. E Firenze e la Fiesole hanno “un solo Cuore…”.

A livello personale mi piace quello che sta facendo la Curva Fiesole, segnatamente nel gruppo UNONOVEDUESEI che, dopo aver vissuto un periodo critico e un ricambio generazionale, sta cercando di ricreare un certo tipo di tradizione e di coerenza agli antichi valori degli Ultras Viola, della Vecchia Guardia e del Vecchio Collettivo Autonomo, nonostante l’avversione digitale dei tastieristi di professione.