Volete leggere finalmente un libro sul mondo ultras senza retorica, senza pregiudiziale criminalizzazione, senza finta morale borghese? Volete provare l’ebbrezza di una giornata di gioia o di rabbia da tifosi autentici, a Bari come a Roma, a Torino come a Palermo? Allora dovete correre in libreria a prendere“L’estate più piovosa di Milano”, del giornalista della Gazzetta dello Sport, Pierluigi Spagnolo, già autore di un essenziale saggio sull’indipendentismo irlandese (“Bobby Sands. Il combattente per la libertà. Una storia irlandese” per l’Arco e la Corte). Barbadillo.it offre ai suoi lettori un estratto del romanzo di Spagnolo, che racconta quattro storie del nostro tempo con realismo e un ritmo coinvolgente. Una incrocia il mondo ultras, raccontandone la generosità e la scelta orgogliosa di andare controcorrente. Sempre.
In quella domenica pomeriggio di metà marzo, parole pesanti come il piombo si erano liberate nell’aria leggera della primavera ormai imminente. “I-nde-gni, i-nde-gni, i-nde-gni”, scandito come un mantra. “A lavorare, andate a lavorare. A lavorare, andate a lavorare”, ritmato sulle note di Guantanamera. E poi ancora: “Vi romperemo il culo, vi romperemo il culo”, con l’allegra melodia di Quel mazzolin di fiori trasformata in una litania carica d’odio. A quel signore di mezza età, capelli grigi e occhiali neri di osso, una moglie fedele a casa a sciropparsi gli ipocriti talk show della domenica, non pareva vero di poter sfogare la rabbia così, libero per strada, in un pomeriggio di metà marzo, in mezzo ad altre centinaia di persone perfettamente uguali a lui, seppur apparentemente così differenti. Forse non sentiva nemmeno di avere addosso il peso dei suoi cinquantaquattro anni, mentre scivolava avanti e indietro sull’asfalto sbriciolato del parcheggio dello stadio “Meazza”, cercando un varco tra la folla incontrollabile, per essere tra i primi a scorgere l’arrivo del pullman della squadra.
Forse, mentre agitava il braccio come un forsennato, per scandire meglio gli slogan e dare una rappresentazione fisica a tutta la sua rabbia, Amedeo Bursi non ricordava neppure di avere un rispettabilissimo impiego all’Agenzia delle Entrate, e un ufficio che si affacciava civettuolo sui Giardini pubblici di via Palestro, e sulle modelle che ogni mattina facevano jogging tra i vialetti attorno al busto di Indro Montanelli. Non aveva tatuaggi da sfoggiare sotto la polo o la t-shirt, come quelli dei ragazzi dei gruppi ultras, né megafoni da utilizzare per amplificare la propria ira, il signor Bursi. Ma aveva scelto di diventare un corpo unico con la folla e la rabbia, con i ragazzini con la testa rasata e i capi con le basette lunghe. La sua austera e borghese incazzatura si rifletteva negli occhiali a specchio dei giovani del secondo anello, si mescolava a quella di uomini travisati da cappellini e sciarpe, si librava nell’aria assieme alla stoffa delle bandiere con i simboli dei gruppi ultras. La loro squadra di calcio, quell’accozzaglia di campioni strapagati per giocare a pallone e celebrati da tv e giornali, sempre più spesso sulle copertine delle riviste di gossip per storie di amore e corna con veline e soubrettine, il mercoledì precedente aveva perso un’altra partita, la quarta di fila, facendosi buttare fuori dalla Champions League. Settima sconfitta nelle ultime dieci gare, tra campionato e coppa. Era davvero troppo, una mortificazione troppo grande da sopportare, soprattutto per quell’esercito di tifosi rimpinzati ogni giorno dalle promesse dei giocatori e dalle aspettative false dei dirigenti, amplificati dai proclami in tv e sui giornali. Un’umiliazione insopportabile, per quegli appassionati che nell’estate precedente si erano lasciati crogiolare al sole con annunci trionfalistici, alimentando i sogni e le speranze di poter lottare ancora una volta per lo scudetto, magari di arrivare fino in fondo anche nelle coppe europee. “Ora basta, ci hanno davvero rotto il cazzo. Devono correre in mezzo al campo, non passeggiare come hanno fatto finora. Devono iniziare a sudare la maglia, ad amarla come facciamo noi… Altrimenti saranno guai per tutti”. I megafoni gracchiavano parole dure, il fumo delle torce rendeva il cielo di Milano ancora più grigio, in quella domenica di marzo. Le aspettative e poi le delusioni, le false promesse e poi le sconfitte. I proclami e le umiliazioni. E così, la passione cieca dei tifosi si era subito trasformata in rabbia, e centinaia di persone avevano raccolto l’appello dei gruppi della Curva, ritrovandosi a contestare la squadra all’ombra di San Siro, in occasione della partita di campionato. Tutti nel mirino: giocatori, allenatore, società. Il tribunale del tifo aveva sentenziato: colpevoli di scarso impegno, tutti sotto accusa per non aver mostrato attaccamento ai colori, per inadeguatezza tecnica, per scelte di mercato rivelatesi balorde, per una gestione societaria di basso profilo.
Tra loro, tra il signor Bursi e Megafono, tra i tanti tifosi comuni mescolati agli ultras, tra i ragazzi della balconata e il plotone di poliziotti in assetto antisommossa, c’era anche Massimo De Palo. Era arrivato allo stadio con il suo scooter, pronto a non farsi sfuggire quell’occasione per respirare a pieni polmoni l’odore acre delle torce e dei fumogeni, per intonare canti ribelli, per urlare con le braccia al cielo, per sentirsi parte di una comunità, per inalare la passione e la rabbia. Per tornare ad essere un ultras e per sentirsi vivo. Le sirene delle Volanti rendevano l’aria elettrica e dirottavano lo sguardo dei tifosi verso il vialone che portava allo stadio, proprio da dove iniziava a intravedersi il pullman della squadra. “Eccoli là, le fighette stanno arrivando. Forza, fischiamo questi pezzi di merda!”. E subito, sul parabrezza del pullman, si era abbattuto un temporale di buuu e uova, di odio e insulti, di manate e brutte parole, di cattiveria e delusione, con il roboante effetto che produce il troppo amore quando si trasforma in rabbia.
*“L’estate più piovosa di Milano” di Pierluigi Spagnolo (Mz.Lab di Meridiano Zero-Odoya), 160 pagine, 14 euro