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Scamarcio e la passione per la Fidelis Andria: “Champions, solo show”

Scamarcio e la passione per la Fidelis Andria: “Champions, solo show”

21 dicembre 2018

Alla fine della chiacchierata con Riccardo Scamarcio, tra un amaro e un caffè al tavolino del ristorante di un lussuoso hotel romano, ti ritrovi a pensare che se sei un tifoso di Juve, Inter, Milan o Roma sei sicuramente fortunato, ma forse ti perdi qualcosa. Perché lui, nato ad Andria 39 anni fa, vive in un mondo apparentemente sommerso, ma zeppo di stimoli e valori che forse nel calcio delle grandi mancano. L’attore pugliese infatti tifa da sempre solo Fidelis Andria, oggi in Serie D, girone H, nemmeno troppo in alto in classifica. 

Mica facile… 
“No, ma il mio cuore dice Semper Fidelis, quindi sono necessariamente portato ad essere fedele ai miei colori e a un’idea di appartenenza a una comunità, che è cosa rara. Certo, adesso ce la passiamo proprio male, la scorsa estate la squadra è fallita e stiamo ripartendo da zero, mentre quando ero adolescente abbiamo giocato anche in Serie B, siamo persino arrivati a fare cori per la A, per cui era quasi inevitabile caderci dentro. Facevo parte della New Blue Generation, storico gruppo di ultrà”. 

Addirittura? 
“Certo! Però in trasferta andavo con mio padre, non voleva partissi con il gruppo. Io però ne approfittavo, facevamo insieme delle gite bellissime, Modena, Bologna… Ho imparato a conoscere l’Italia grazie al calcio. Ancora oggi parlo da ultrà, che è un modo di pensare, un modo di essere, che può piacere o non piacere ma si basa su una fede che ha qualcosa di ancestrale, io appartengo alla Fidelis Andria”. 


Il calcio cosiddetto minore ha qualcosa in più rispetto a quello delle big?
 
“Il calcio a certi livelli ormai è spettacolo quasi più che sport, soprattutto la Champions League: fossi il capo ultrà della Juve, dell’Inter o di un altro grande club la boicotterei… Credo che tutto questo show tolga qualcosa al senso primario del calcio, che è fatto anche di semplicità e senso di squadra, di solidarietà”. 
 
Cose che in Serie D ritrova? 
“Beh sì. E mi piace anche essere costretto ad andare allo stadio per vedere la partita. In Lega Pro c’era un canale web che mi consentiva di guardare l’Andria ovunque fossi, adesso no, ma va bene così, mi entusiasma l’idea di dover per forza prendere la macchina e uscire. Se ami qualcosa lo fai volentieri, così come chi sceglie di andare al cinema e rinuncia al film sul divano. Io vado ogni volta che posso, ho anche fatto l’abbonamento assieme a mio fratello, abbiamo scelto i più costosi, anche per dare una mano alla società”. 

Del resto nella Fidelis Andria lei ha anche giocato. 

“Pulcini e esordienti, poi feci un campionato Giovanissimi regionali nell’Atletico Barletta. Ero un’ottima ala destra, correvo velocissimo sulle fasce. Mi ispiravo a Sturba e a Petrachi…”. 

Chi? Pensavamo dicesse, che so, Garrincha! 

“Erano due grandi giocatori di quell’Andria là! Poi c’era Oberdan Biagioni, il nostro mito assoluto”. 

Dunque voleva diventare un calciatore? 
“In realtà no, ho smesso presto, un po’ perché mi sono fatto male a una mano, un po’ perché era la fase delle uscite con gli amici, delle ragazze e allora ciao… Il calcio comunque è fatto di sacrifici e a quell’età facevo fatica”. 
Spesso ci dimentichiamo che anche i calciatori strapagati di oggi hanno attraversato quella fase non facile.
 
“Perché voi pensate solo ai grandi campioni della Serie A. Questo è anche uno sport di gente semplice che si ammazza per la maglia. Guardate la Nazionale, avete visto che partita contro la Polonia?”. 

Certo, bella gara. 
Bella? Uno spettacolo, finalmente una squadra degna di questo Paese, della nostra storia calcistica. Barella, Verratti, Bernardeschi e tutti gli altri hanno giocato da Dio, dopo due anni abbiamo visto una grande Italia, fatta di talenti che combattono su ogni pallone. Mancini sta dimostrando di saper fare le scelte giuste, sono molto fiducioso per il futuro, con questi ragazzi giovani pronti a combattere come leoni, con intelligenza e grandissima tecnica. La vecchia Italia è finita, adesso bisogna ricominciare e lo abbiamo fatto con il piede giusto”. 

Segue il campionato? 
“La Serie D, certo”. 

Intendevamo la A. 

“Bah, insomma, da amante del calcio cerco di vedere le partite migliori, ma purtroppo il campionato è diventato meno importante della Champions League e questo rischia di rovinarlo”. 

Certo dopo sette scudetti bianconeri e l’arrivo di Ronaldo è difficile pensare a un campionato con un finale sorprendente. 

“Ronaldo è un grande campione ed è anche molto intelligente a gestire il suo essere personaggio. Non dimentichiamoci che il calcio, come dicevo, è spettacolo e il carisma conta. Per esempio Cassano ha smesso di essere Cassano quando è diventato un bravo ragazzo, lo stesso ha fatto Balotelli. Il calcio, e in questo c’è una analogia con il mio lavoro, è fatto principalmente di anarchia, ha bisogno di gente pronta a sovvertire le regole: il campione alla fine è quello che ti fa il colpo di tacco o il cucchiaio come Totti su rigore agli Europei, quello che azzarda la giocata che nessuno farebbe mai, che ha il coraggio di non conformarsi. Avete presente Maradona? Questa forma di umanità che contesta l’ordine è una delle cose che più amo del pallone. E attenzione, non si tratta di presunzione, è un atto di amore, perché chi non aderisce agli schemi si assume tutte le responsabilità di quello che fa: se Totti avesse sbagliato quel rigore da genio sarebbe diventato un coglione, è un attimo ma quell’attimo fa la differenza”. 

 
Ha seguito il caso Entella e il conseguente caos in B? 
“Sì e tutte queste storie hanno un po’ rotto le scatole. Bisognerebbe sburocratizzare il calcio. Io penso che il problema sia nato con le scommesse, perché ci sono persone che ci fanno molti, ma molti, ma molti soldi. Poi sono arrivati i diritti tv, le squadre diventate un puro business e tutto si è complicato”. 

Da giovedì 25 ottobre la rivedremo al cinema con “Euforia”, il nuovo film di Valeria Golino di cui è protagonista con Valerio Mastandrea. Chiudiamo parlando dell’euforia del tifoso? 
“Il calcio ha una capacità pazzesca di dare euforia, per questo viene spesso definito l’oppio dei popoli. Ma quando diventa la valvola di sfogo della gente frustrata dalla quotidianità è un male, dovrebbero cercare altro nella vita, magari un bel film…”. 

Come il vostro. 
“Qui interpreto un gay, Matteo, fratello di Ettore, Mastandrea, che ha un tumore incurabile. Vengo a sapere della malattia prima di lui e cerco di tenerlo all’oscuro di tutto. “Euforia” è un film che sfugge ad ogni definizione e che pone domande. Esista un confine tra altruismo e egoismo? Credo che spesso si sovrappongano: siamo certi che tutti i generosi lo siano per gli altri e non per loro stessi?”.

Elisabetta Esposito