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Senza bandiere, che calcio sarà?

18 giugno 2017

Le bandiere, cioè i giocatori che si «tatuano» una sola maglia sulla pelle, sono l’essenza del calcio. Chiunque sostenga il contrario, in nome dei tempi che cambiano e della modernità che avanza, non tiene conto di un banale dettaglio: è il senso di appartenenza a trasformare, nell’immaginario collettivo, l’uomo normale in eroe. Al netto delle qualità tecniche Totti, Del Piero o Paolo Maldini sarebbero diventati miti se avessero indossato maglie diverse da quelle della Roma, della Juve o del Milan? Sarebbero stati campioni, certo. Di più: fuoriclasse. Ma non miti. A quell’altezza siderale si arriva soltanto quando alle doti puramente calcistiche si unisce quel «quid», misteriosa miscela di carattere, stile e comportamento, che alimenta la passione della gente.

Donnarumma ha scelto di non diventare la bandiera del Milan. Decisione legittima, ma che ci permettiamo di criticare. Ognuno è libero di costruire il proprio destino, di fare i propri interessi e di scegliere la strada che ritiene più adatta per raggiungere i propri obiettivi, ma alla fine di questa tormentata storia tra il portiere e la squadra che lo ha lanciato nello scintillante mondo del pallone, rimane un senso di smarrimento: a che cosa si possono attaccare gli appassionati se anche un ragazzino di diciott’anni manda in frantumi i loro sogni? A che cosa dovranno credere, soprattutto, quando domani vedranno un altro giocatore baciare la maglia, segno di amore eterno, proprio come ha fatto Donnarumma davanti alla curva osannante? D’accordo che il calcio, ormai, si gioca più negli ovattati uffici degli avvocati e dei commercialisti che non negli stadi; d’accordo che per stendere un contratto, oggi, si schierano autentiche squadre di legali e che ogni postilla può nascondere una trappola; d’accordo che è passato il tempo delle strette di mano e degli accordi stipulati davanti a una tazza di caffè; ma siamo davvero sicuri che questo nuovo stile interpreti gli interessi del pubblico? Perché, questo non andrebbe mai dimenticato, il calcio è uno spettacolo e, come tutti gli spettacoli, esiste nella misura in cui la gente ne fruisce. Quante volte, nell’ultimo periodo, si sono visti striscioni che recitavano «No al calcio moderno», in aperta polemica con gli orari delle partite e con i calendari sempre più figli dei palinsesti televisivi? Bene, e se a questo pubblico togliamo pure le bandiere, che cosa gli resta?

Il Milan, anche nella memoria dei giovani di oggi che smanettano sugli smartphone, twittano e «whatsappano», è Gianni Rivera. Così come l’Inter è Sandro Mazzola. Miti nati e cresciuti sui campi degli anni Sessanta e Settanta, e arrivati intatti, con il loro carico di emozioni, di gioie e di amarezze, fino al presente. Nessuno li dimenticherà e, se ciò accadesse, sarebbe come se un italiano non ricordasse che a guidare l’esercito dei Mille c’era un signore con la barba che si chiamava Giuseppe Garibaldi. Saremo degli inguaribili romantici, o dei conservatori legati a un mondo in via di estinzione, ma a noi un calcio senza bandiere dice poco. Anzi: nulla.

(A.Schianchi, Gazzetta dello Sport)