Aneddoti, simboli, rituali, sodalizi. Di questo è fatto il calcio. O meglio, era. Potrà sembrare strano a molti, soprattutto alle leve più giovani che in questo sport ci vedono un mero bene di consumo, acquistabile in pay-per-view con pochi euro; uno spettacolo a cui assistere comodamente seduti sul proprio divano, alla stregua di una qualsiasi serie tv. Oppure a chi, consapevole o meno, usa il calcio come valvola di sfogo per le frustrazioni accumulate in settimana, talvolta con conseguenze gravissime: le maledette domeniche concluse in tragedia di cui tutti sappiamo. Talvolta, dietro a queste visioni, si cela una precisa volontà politica: rendere il calcio un contenitore sociale da stigmatizzare e vezzeggiare a piacimento, a seconda degli interessi elettorali. Ma soprattutto una grande arma di distrazione di massa, quel panem et circenses che, dall’antica Roma ad oggi, chi ci governa ha sempre abilmente adottato.
Tuttavia, se ne dispiaceranno politici e tv, il calcio è molto altro. Relegarlo a questo significherebbe sminuirlo. E non sarebbe giusto, oltre che storicamente scorretto. C’è infatti tutto un mondo a sé in cui il calcio vive, è nato e di giorno in giorno si alimenta. Un mondo fatto di osterie, circoli, fabbriche, cortili, vicoli. Luoghi difficilmente accessibili alla politica, che negli anni ha perso il suo appeal chiudendosi nell’autoreferenzialità delle proprie stanze e trasformando in musei le storiche sezioni dei partiti; un errore che ha smembrato il senso di comunità e identità tipico di quelle periferie; un errore che la politica – e noi tutti – paghiamo ancora a caro prezzo. E in quegli anfratti non ci entrano nemmeno le tv, attratte da altri lidi in cui pecunia domina sovrana. Certo, le eccezioni non mancano. Ma nei rari casi in cui i riflettori vi si posano, alto è il rischio di edulcorare – e quindi snaturare – mondi che racchiudono bellezza in sé: nella propria umile, ma sempre dignitosa, autenticità.
Questi soggetti non hanno capito che a una partita di calcio non si assiste, la si vive. Che il football è arte: povera, popolare, ma sempre arte. E come tutte le arti talvolta divide, altre accomuna. Amicizie e rivalità popolano la nostra vita, lo stesso vale per il calcio. Da qui i gemellaggi tra tifoserie. Roba per ultimi romantici? Forse. Ma il discorso, al di là delle apparenze, è ancora una volta più complesso.
Per affrontarlo occorre andare alla radice. La fratellanza che da 43 anni lega i tifosi di Genoa e Toro offre un ottimo punto di partenza. Due squadre accomunate da tantissimi fattori. La Storia, innanzitutto. Emblematica quella del Grifone, i cui primi documenti risalgono addirittura al 1893, riportanti la denominazione “Genoa Cricket and Football Club”. A fondare la squadra fu un manipolo di inglesi riuniti nelle sale del consolato britannico di via Palestro. Il Torino nacque invece un po’ più tardi, nel 1906, da una frangia ribelle fuoriuscita dal direttivo della Juventus. Alla sua guida l’imprenditore svizzero Alfred Dick, uomo dalle idee innovative ma dal carattere difficile, suicidatosi tre anni più tardi. Ribelle, visionario e tormentato. Insomma, nella personalità del suo fondatore c’era già tutto il DNA del tifoso granata.
E con le origini ha inizio la Storia, primo tratto comune tra Toro e Genoa. Una Storia nobile quanto travagliata, caratterizzata da un destino infausto.
Padroni assoluti del calcio fino agli anni ’20, i rossoblù vinsero ben nove scudetti, l’ultimo nel 1924. Il decimo, quello della stella da appuntare sulla maglia, sfumò clamorosamente la stagione successiva, in uno spareggio contro il Bologna. In quella partita accadde di tutto, inclusa un’invasione dei tifosi avversari che, capeggiati da gerarchi armati di rivoltelle, influenzarono pesantemente l’arbitraggio. A quasi un secolo di distanza, quella maledetta stella rimane il sogno di ogni tifoso genoano. Uno stoico attaccamento alla maglia che in questi anni è stato messo a dura prova da retrocessioni, guai societari, successi solo sfiorati… Nulla è però riuscito a scalfire l’amore dei tifosi. Un amore che, per storia e intensità, avrebbe meritato molto di più.
Ma ancor più turbolenta è la storia del Toro, perché alle innumerevoli sfortune sportive si sommano le tragedie umane. Prima tra tutte, ovviamente, la strage di Superga. Una truppa di invincibili sconfitti solo dal fato. Di loro tanto si è scritto, aggiungere altro sarebbe superfluo. Quello che forse non tutti sanno, però, è che la prima squadra ad affrontare il Toro post-Superga fu proprio il Genoa. Si giocò a Torino, al Filadelfia, in un mesto 15 maggio 1949. Per rispetto ai Campioni d’Italia, il Grifone schierò quasi per intero la formazione Primavera. Infatti, tra i ventidue scesi in campo quel giorno, ad aver già presenziato in Serie A, oltre all’ala granata Luigi Giuliano, tre soli genoani: Franco Bironi, Giovanni Battista Odone e Gino Corradini. A difendere i pali del Toro fu il portiere Guido Vandone, preferito a Manlio Bacigalupo, comprensibilmente scosso dalla perdita del fratello Valerio, numero uno granata deceduto a Superga. La partita si disputò in clima surreale davanti a ventimila commossi spettatori. Tra loro anche il trombettista Oreste Bolmida, colui che scandiva l’inizio del celebre quarto d’ora granata; al suo segnale, capitan Mazzola si rimboccava le maniche e non ce n’era più per nessuno. Il Genoa, diversamente dalle regole dell’epoca che imponevano il cambio della maglia ai padroni di casa, aveva voluto onorare la società così duramente colpita lasciando ad essa la possibilità di giocare con la tradizionale casacca granata. La partita si concluse 4-0 in favore del Toro, a segno con i giovani Marchetto (doppietta), Gianmarinaro e Lussu.
Da quel giorno, che per i granata segnò l’inizio di una faticosa rinascita, il destino di Toro e Genoa s’incrocio varie volte. Tra questi intrecci un ruolo centrale spetta a Gigi Meroni, eccentrica ala destra dal dribbling imprevedibile. Tra i luoghi in cui il calcio si alimenta, come dicevamo, ci sono i cortili. Ebbene, fu proprio in 60 metri quadrati di cemento che Meroni cominciò a giocare a calcio. Rimasto orfano di padre a soli due anni, visse una vita travagliata: Genoa e Toro non potevano che essere nel suo destino. Le ristrettezze economiche lo costrinsero a iniziare presto a lavorare. Sulle orme della madre tessitrice, incominciò col disegnare cravatte. Dalla bottega passò poi ai campo di calcio: i primi campionati li disputò nel Como, squadra della sua città, poi il grande salto in Serie A nelle file del Genoa, dove giocò 42 gare con 7 reti all’attivo. Tanto bastò a far sognare una città intera, la quale si mobilitò in massa nell’estate del 1964, quando venne ceduto ai granata. Artista in campo e fuori, a Torino visse in un’angusta mansarda di piazza Vittorio. In quell’anfratto dipingeva e scriveva poesie, sull’erba del Comunale confezionava assist e gol pazzeschi. Ma nel momento più bello fu proprio Meroni, che con le sue giocate aveva ridato speranza al Toro, il secondo olocausto granata. La sera del 15 ottobre 1967, poco dopo una sfida di campionato giocata contro la Sampdoria, la “farfalla granata” cessò di volare per sempre, investita fatalmente da un’auto in corso Re Umberto.
Di Meroni fu un grande ammiratore anche il cantautore genovese Fabrizio De André, genoano per dispetto alla famiglia granata. L’amore tra De Andrè e il Grifone nacque, manco a dirlo, in un Genoa-Toro del 5 gennaio 1947. Per Fabrizio, che al tempo aveva appena sette anni, si trattò della prima volta allo stadio. Si giocò al Ferraris, stadio adiacente al carcere Marassi, a cui De André fu sempre legato per la sua nota empatia con i detenuti. Al suo fianco, sugli spalti, il fratello maggiore Mauro – futuro avvocato – e il padre Giuseppe – rinomato professore -, entrambi torinisti. Con la sua indole a vivere sempre in “direzione ostinata e contraria” il piccolo Fabrizio non poteva che schierarsi contro la sua rispettabile famiglia. Oltre che, ovviamente, simpatizzare per i più deboli. Quel giorno, come da pronostico, il Grande Torino di Mazzola e compagni sconfisse per 3-2 il Genoa. Tuttavia, per gli invincibili granata non fu una domenica facile. Sotto di 3 gol fino all’85’, il Grifone sfiorò la rimonta segnando due gol e calciando sul palo il pallone del possibile pareggio. Una delle tante imprese sfiorate con cui i genoani – ma successivamente anche i granata – hanno imparato, loro malgrado, a convivere.
Col passare degli anni, la passione di De André per il Genoa divenne sempre più viscerale; a inizio anni ’60, l’approdo di Meroni in rossoblù non fece che consolidarla. Per l’ala destra, il cantautore aveva una singolare venerazione, a tal punto da scriverne così nei suoi diari: “Meroni era dotato di una creatività simultanea: ciò che intuiva riusciva a mettere in pratica, aggiungendo a una tecnica da giocoliere una velocità d’esecuzione micidiale”. Ma oltre che per le indiscutibili doti calcistiche, il De André anarchico ammirava Meroni per la sua sregolatezza fuori dal campo. A chi gli chiedeva lumi su tanta eccentricità, la quale gli costò una mancata convocazione in Nazionale, lui rispondeva: “Io faccio così non per esibizionismo, ma perché sono così, perché anelo alla libertà assoluta e questi capelli, questa barba sono segni di libertà. Può darsi che un giorno cambierò, quando la mia libertà sarà un’altra”.
Chissà dove sarà ora, chissà se sarà cambiato davvero. Sinceramente, viene difficile pensarlo diverso da come ci ha lasciati. Sulla sua morte, poi, si sono create numerose fantasie. L’anno in cui perì, si vociferava di un suo imminente passaggio alla Juve. Per questo alcuni tifosi granata vedono nella sua scomparsa un segno del destino, che mai avrebbe accettato di vederlo in bianconero. Stupidaggini per molti; credenze per altri. Tuttavia, con una figura così irrazionale come Meroni, ogni veduta è ammessa. E per una tifoseria dal destino così avverso, anche la fantasia può rappresentare un appiglio, un disperato tentativo di esorcizzare i fantasmi della Storia.
Già, la Storia. Leggendaria, maledetta, unica. Basterebbero le tradizioni a legare Toro e Genoa, ed in fondo è così. Ma l’investitura ufficiale accadde nel 1973, ancora d’inverno, ancora a ridosso di una sfida tra le due squadre e, soprattutto, con Gigi Meroni ancora invischiato. Era il 30 dicembre, si giocava a Torino. Prima del match, un nutrito gruppi di tifosi genoani si recò a deporre un mazzo di fiori nel fatidico punto di corso Re Umberto. Sul posto giunsero anche diversi supporters granata. Inizialmente ci fu un attimo di tensione, presto stemperata dai tifosi del Toro, i quali ringraziarono i genoani per il gesto e li invitarono a fare un giro di campo insieme, allo stadio Comunale, per suggellare l’amicizia tra le due tifoserie.
Ebbe così inizio il gemellaggio più antico d’Italia. Un sodalizio fatto soprattutto di ritrovi e partitelle tra le rispettive tifoserie, molte delle quali disputate al Filadelfia. E poi, ancora, manifestazioni di reciproca solidarietà: nelle diverse alluvioni che hanno colpito Genova o in occasione delle commemorazioni; a quelle storiche di Superga e Meroni, dal ’95 si aggiunge quella dell’ultras rossoblù Vincenzo Spagnolo (detto “Spagna”), accoltellato fuori da Marassi da un tifoso milanista.
Ma spesso, si sa, ci si unisce anche per contrapposizione. Ed è proprio nei derby che i tifosi di Toro e Genoa, forti di una indiscussa supremazia numerica cittadina rispetto alle rivali Juventus e Sampdoria, danno il meglio di sé. Coreografie che sembrano affreschi umani, talvolta preparate per mesi. Non a caso, fino a qualche tempo fa, tifosi di vari club europei si recavano sul posto – in Maratona o in Gradinata Nord – per gustarsi dal vivo lo spettacolo, talvolta per imparare. Ora non è più così, complici delle leggi assurde che hanno privato le curve della loro anima. Fuochi d’artificio, tamburi, fumogeni, striscioni. Tutta roba rigorosamente vietata: possibile solo previa autorizzazione, concessa peraltro in circostanze sempre più rare.
È quindi con un velo di malinconia che concludo l’articolo, consapevole di essermi perso gli anni migliori di questo fantastico gemellaggio, ahimè incrinatosi nel 2009. Quel giorno soffrii particolarmente, più per la rottura tra tifoserie che per la retrocessione del Toro. Assistetti alla partita dalla curva Primavera, proprio a fianco del settore ospiti. Non è mia intenzione stabilire chi avesse torto o ragione, mi limito a dire che queste cose avvengono perché si è persa – da entrambe le parti – la coscienza di cos’è – o meglio, cos’era – il calcio: un fenomeno sociale straordinario, capace di dividere e al contempo unire due città così diverse come Torino e Genova. Città operaie, partigiane, fiere, umili e dignitose. In una parola: stupende. Il garbo parigino, talvolta mendace, di Torino; la sua indefessa austerità da bôgianen, il suo essere “quadrata” come la geometria della sua struttura urbana. E dall’altra parte Genova, con i suoi odori intensi e suoi caruggi stretti, con la ruvidezza dei genovesi; una ruvidezza che ad un primo sguardo può sembrale ostile, scorbutica, ma che se sai guardare oltre scoprirai essenziale. E per questo perfetta.
A legare Genoa e Toro non è quindi solo il calcio, ma un modo di stare al mondo, uno stile di vita. Visione puerile? Può darsi. E ben venga, se ciò significa approcciarsi al mondo con lo sguardo incantato di un bambino. Quello sguardo che da più parti si vuole negare. Se un giorno nostro figlio ci chiederà di cosa è fatto il calcio, gli racconteremo la Storia di questo gemellaggio. Lo faremo con orgoglio e con un pizzico di malinconia, la stessa che mi assale ogni volta che penso ai miei primi Genoa-Toro vissuti allo stadio. Quando ero piccolo e tutto mi appariva più grande: la manona di mio papà, le gradinate dello stadio, i giocatori, le aste dei bandieroni, le montagne tra Piemonte e Liguria. Se chiudo gli occhi e ci penso, sento ancora la sensazione di quando lasciavo Marassi dopo una partita, all’imbocco del casello di Genova est per il rientro. Uno stato d’animo descritto splendidamente in alcuni versi di Giorgio Caproni:
“Genova che non mi lascia / Mia fidanzata. Bagascia. / Genova ch’è tutto dire /sospiro da non finire”.
Versi che parlano di Genova, ma che potremmo tranquillamente affibbiare a Torino. Perché la realtà è una sola, bellissima e inconfutabile: “Genoa e Toro: due città, un cuore solo”.